martedì 1 dicembre 2009

Chuck Norris

Mi diverte questa storia dei Chuck Norris Facts (qui in italiano), le imprese impossibili e surreali attribuite all'attore; così ne ho coniata qualcuna personale (sicuro come vederlo che alcune esisteranno già, ma amen)

Chuck Norris ha sistemato i conti pubblici italiani.
Usando le ricette di Tremonti.

Chuck Norris la guarda la versione di 5 ore della Corazzata Potemkin: quando vuole divertirsi.

Chuck Norris potrebbe vivere 100 anni a Milano e continuerebbe ad usare “piuttosto che” in modo corretto.

Chuck Norris le 10 domande se le fa da solo
(“e non risponde”, M. Magurno).

Chuck Norris ha impedito la costruzione del ponte sullo Stretto rendendolo troppo largo a calci. Poi ce l’ha costruito lui.

Chuck Norris ha riaggiustato le reni alla Grecia.

Chuck Norris continua a votare PD.

Chuck Norris, quando va con le trans, si fa fare il video; poi ricatta i carabinieri.

Quando Terry Gilliam ha girato un film con Chuck Norris tutto è filato liscio, ha finito in tempo e gli sono anche avanzati i soldi.

Quando la polizia ferma Chuck Norris per un controllo e lo porta in cella per una notte sono i poliziotti che dopo hanno i lividi.

Chuck Norris ha autorizzato lo Stato a costruire un edificio pubblico attorno al chiodo con la sua immagine appesa.

L’influenza suina si è vaccinata contro Chuck Norris, ma ha vinto lui lo stesso.

giovedì 26 novembre 2009

Una vignetta cretina

La mia creatività è sì deviata, ma in modo multiforme. Per esempio, mi sono dilettato anche di fumetto; o più precisamente di vignette. Una.
Con questi risultati:

lunedì 23 novembre 2009

Gli occhiali di Midge Ure

Tempo fa scrissi una poesia per celebrare la bella esperienza di aver partecipato all'organizzazione della lettura integrale delle Metamorfosi di Ovidio, organizzata nel 2004 dalla Normale col titolo di Mare Nero.
A un certo punto del sublime carme, che si chiama Mutazioni e che non è qui sul blog, facevo una similitudine che capivo solo io con gli occhiali di Midge Ure: anche il resto della poesia era verbosa e contorta, in verità, ma quel passaggio era proprio incomprensibile, a meno di un superintuito, a chi non fosse me.
Ora lo spiego, avendo finalmente scritto la poesia esplicativa che avevo in mente già allora e pubblicandola; dovrebbe essere leggibile anche autonomamente, aihop.



Nel mezzo del cammin di nostra vita
(io spero un poco prima) mi trovai
a fare un piccolo salto nel tempo
in fondo a un grande negozio di hi-fi.

Dentro la stanza dei 5 + 1,
dolby surround, grossi televisori,
c’era un programma che, quando lo fecero,
per me era nuova la tv a colori.

Uscito in dvd dopo vent’anni,
più o meno, lo mandavan su ogni schermo;
e mentre con la mente andavo indietro
col corpo ero incantato, e stavo fermo,

fleshato a ricordar quel vecchio giorno
del gran concerto detto “Vita Aiuto”,
con gran parata di nomi preclari,
vecchi e chi il successo aveva avuto

da poco e in quel momento cavalcava
la cresta pop dell’onda nuova inglese;
e il vertice era senza dubbio quello,
suonare trasmessi in ogni paese.

E già lo stadio a Londra era strapieno
più di ogni altro possibil lor concerto;
tra gli altri, sul palco inglese Midge Ure
salì – benché fosse estate – coperto.

Sarebbe più esatto dire protetto
dalla pressione dell’immensa folla:
lo spolverino ’80 a far corazza,
barriera la chitarra ad armacolla,

gli altri Ultravox a coprire le spalle,
tutti schierati dietro a una canzone
anch’essa stile ’80, ai cui riff
aggrappare la lor concentrazione.

Cantava in essa di lacrime agli occhi
ma pure quelli avevano davanti
una barriera, ossia occhiali a specchio
che riflettevan di Wembley gli astanti

nella parte inferiore, mentre in quella
più alta c’era il cielo sovrastante
sbiadito dal catodico, ma a luglio
so che era più intenso: sempre distante

nella sua immensità sotto la quale
tutto succede, si alterna e scompare
in giorni triturati in successione
di oblio, dal quale li viene a salvare

un qualche fatto pubblico o privato
che stampa un segno sopra a una giornata
ed è come se al muro l’appuntasse
dopo che dal cestin l’ha ripescata.

E mi chiedevo cosa avesse in testa
in quel momento che non scorderà,
in quel giorno che anch’io serbo appuntato,
dietro gli occhiali che cosa, chissà,

mentre il cielo di Wembley nel negozio
specchiato negli occhiali si specchiava
- attraversando disco, schermo ed occhi -
nel riflesso che in me si conservava;

quando due schermi azzurri, in un istante,
intensamente indietro mi han portato
al giorno di Midge Ure e al mio lontano,
da umano a digitale a uman passato.




martedì 29 settembre 2009

Parmi un pardi

Pòre parole,
impure periron.
Parer potrebbe
pera per porco:
però un parà
non per eroe.

20 settembre 2009 circa

Altro che Nostradamus: fumetto profetico

Un vecchio articolo del 2002 scritto per Made in U.S.A. online ma mai pubblicato. Rispetto ad allora, la Planeta-DeAgostini ha preso il posto della Play Press come editore della DC Comics in Italia, pubblicando parecchio ma, ahimè, non la Suicide Squad. Della quale peraltro sono uscite all'inizio degli anni 2000 un paio di nuove serie negli USA, una delle quali ad opera proprio di Ostrander: in Italia non si sono viste neanche queste, ma visto che nel 2011 dovrebbe uscire un film tratto da questo fumetto magari prima o poi pubblicheranno qualcosa.


Scena: Manhattan. Titolo della storia: “Battleground: Manhattan”. Svolgimento: Dopo una panoramica sul cuore della Grande Mela, accompagnata da didascalie che parlano del suo grande potere ma anche della sua fragilità, un gruppo di supercriminali comincia a seminare morte e distruzione tra la popolazione. Alla fine della loro azione, dichiarano alla tv: “Siamo la Jihad. Ognuno di noi proviene da un paese che è in guerra a causa dell’intervento più o meno diretto del governo americano. Questa notte proverete ciò che hanno provato le nostre terre d’origine”.




Ci fermiamo qui. Qualcuno dirà “Bene, finalmente anche il fumetto americano ha deciso di affrontare i temi politici del momento con coraggio. L’esempio di Authority e degli ultimi X-Men è servito”. Qualcun altro si chiederà se è l’inizio di una nuova serie o un nuovo episodio di quelle appena citate. Qualcuno infine troverà di cattivo gusto l’aver messo sotto la vignetta che raffigura le Torri Gemelle la didascalia “Mecca per alcuni” (riferito a cosa rappresenta l’isola nell’immaginario delle persone), ma in generale gli amanti del fumetto impegnato saranno contenti di sapere che qualcuno ha deciso di parlare del dramma dell’11 settembre in toni un po’ meno retorici di quelli dell’albo speciale dell’Uomo Ragno.


Nulla di tutto ciò: il fumetto in questione è uscito nel settembre del 1988 (esatto, OTTANTOTTO) ed era per l’appunto il numero 17 di Suicide Squad, una serie durata 64 numeri uscita per la DC Comics tra il 1987 e il 1992.


In essa si narravano le gesta di un gruppo di superesseri che svolgevano in segreto missioni “spinose” o delicate e particolarmente rischiose per conto del governo americano. La cosa particolare era che, a parte un nucleo più o meno fisso, i supertipi in questione venivano reclutati ... tra i criminali! Il governo proponeva loro di svolgere una missione e in cambio avrebbero avuto una riduzione della pena.


La premessa è già insolita, ma non era l’unico elemento originale della serie: intanto il funzionario governativo che comandava il gruppo era una donna nera (e grassa, per di più); poi non si sapeva mai chi sarebbe arrivato vivo alla fine dell’albo: i personaggi morivano davvero. Né l’intenzione dell’autore (John Ostrander) era quella di raccontare storie nelle quali il cattivo, messo a lavorare per il suo paese, arrivava a capire l’importanza del bene e a redimersi: i partecipanti alla missione avevano tutti un bracciale che avrebbe fatto saltare loro un braccio se avessero provato a scappare o a toglierselo; quanto al bene, le missioni non erano esattamente quanto di più immacolato (benché nessun membro della Suicide Squad abbia mai tirato missili su un matrimonio...).


Ovviamente, bisogna dimenticarsi del tipico eroismo e dell’abnegazione classica dei fumetti di supereroi: se mai arrivava a manifestarsi qualcosa di simile ciò avveniva per vie strane: il realismo e l’umanità dei personaggi erano tali che, se non erano buoni nel senso classico, non erano nemmeno totalmente cattivi, e nei loro comportamenti poteva sempre trovare posto anche un moto di bontà, fosse sincero o dettato da interessi personali. Tutto ciò rendeva le storie imprevedibili: come già detto, non si sapeva mai chi sarebbe arrivato vivo alla fine dell’episodio (e state tranquilli che non risorgevano ...) né cosa avrebbe combinato un personaggio: le missioni potevano fallire per i più svariati motivi. Nel corso di questa serie abbiamo assistito anche a tentativi di controllo più stretto del gruppo da parte di qualche politico; a membri della Squadra che impazzivano; al capo, Amanda Waller (uno dei più grandi personaggi dei fumetti DC), che a un certo punto finisce per un anno in carcere; e anche alla nascita di Oracolo (le copertine di quei due numeri ovviamente sono di Bolland).


Ma a parte questo, era il clima delle storie ad essere assolutamente peculiare: per fare un esempio, in uno dei primi numeri c’è una scena memorabile in cui Captain Boomerang (un vecchio nemico di Flash, personaggio fisso della serie di Suicide Squad) sta per avvertire un’altra del gruppo che stanno per spararle alla schiena; poi però si ricorda che lei l’aveva umiliato davanti agli altri prima della missione e non la avvisa, lasciando che la uccidano. Non è esattamente il tipo di comportamento cui ci avevano abituato Superman o i Vendicatori ...


Figlia sicuramente di Watchmen e del suo approccio rivoluzionario alla figura del supereroe, ma senz’altro originale per contenuti e toni, visto che per trovare qualcosa di simile abbiamo dovuto aspettare Authority (sia Ellis che Millar), gli X-Men di Morrison, la X-Force di Milligan (nota successiva: anche gli Ultimates, sempre di Millar), questa serie all’epoca risultava decisamente nuova e insolita. Chiuse per disaffezione del pubblico, ma non certo perché le storie fossero scadute di qualità. All’autore Ostrander furono anche concessi sei numeri in più (rispetto a quello con cui avrebbe dovuto chiudere la serie) per chiudere tutte le trame lasciate in sospeso. Fu anche sfortunata: come raccontò Ostrander, l’idea che il governo americano finanziasse operazioni “sporche” e segrete in altri paesi era assolutamente nuova, e per qualcuno avrebbe anche potuto risultare sconvolgente; poi, qualche mese prima dell’uscita del numero 1 scoppiò lo scandalo dell’Irangate, e l’idea della serie ne risultò disinnescata: la realtà era tranquillamente al passo con la fantasia.


È un peccato che in italia questa serie si sia vista poco (qualcosa in occasione di crossovers tipo Invasione e basta), né c’è speranza di vederla ora: già ai tempi in cui la Play Press pubblicava ancora testate da edicola i suoi redattori affermavano che non avrebbero pubblicato “materiale pre-Crisis” (prima) e “pre-Ora Zero” (dopo); e nonostante la loro attuale iperproduzione di volumi da libreria dubito che ne vedremo qualcuno dedicato alle gesta del gruppo di Amanda Waller. È un peccato, dicevo, perché oltre che bella questa serie aveva anche precorso tendenze delle serie attuali. E non solo tendenze, anche elementi precisi: il capo di X-Force, infatti, non è il primo personaggio che storia dopo storia si trastulla con l’idea del suicidio. A parte un personaggio che a un certo punto lo commette davvero, c’è il Conte Vertigo che per gran parte del corso di Suicide Squad medita e riflette se farsi sparare o no da Deadshot; e che squadra suicida sarebbe se non ci fosse stato in ballo qualcosa del genere? E l’ultima scena dell’ultimo numero, giustamente, risolveva finalmente la questione...

mercoledì 9 settembre 2009

4TY 4EVER.

To be forty forever,
perenne quarantenne…
nemmeno troppo scandalo
se vai co’ ‘na ventenne.
Se me ce incontra il padre
forse salvo le penne;
to be forty forever,
per sempre quarantenne.

In testa l’esperienza,
ma anche la freschezza
(pure se la demenza
non appare saggezza);

la sfango di salute
e domino a bellezza
(anche se c’ho la chierica
e non la bianca frezza).

‘st’età la trovo splendida
(un po’ ancor ti dà spleen,
ma quello mai vien meno):
vòi mette coi fourteen?

Sai meglio assai la strada
e vai a tutto gas,
ancora: te lo dico,
forty kicks fourteen’s ass!

Mi piglia un po’ il pensiero
se penso a fine di anno,
ma sul mio ama’ i 40
la cosa non fa danno,

perché la mia passione
per quest’età è assai tanta;
tant’è che la terrei
almen pe’ altri quaranta;

già un po’ so’ fatto con
lo stampo Dorian Gray,
quaranta anni quaranta
anni avere vorrei.

Perché la vita è stronza
ma io la dribblo indenne,
to be forty forever,
per sempre 40enne…

giovedì 13 agosto 2009

"Sticazzi" e "mecojoni" 2 - un ringraziamento, un'ammenda e qualche altra cosa.

E' con vero onore che scopro che questo blog è stato citato da Stefano Bartezzaghi nella rubrica "Lessico e Nuvole" del Venerdì di Repubblica del 7 agosto (e ovviamente mi decido a scriverne quando esce il numero nuovo...), nella fattispecie in riferimento al vecchio post
"Sticazzi" e "mecojoni": una questione filologica
in un articolo addirittura intitolato partendo dagli esempi che avevo fatto per spiegare la differenza tra le due espressioni.
"Me cojoni!", dunque? Certo, ma colgo anche l'occasione, oltre che di ringraziare di cuore l'esimio linguista per la citazione e per avermi fatto scoprire che ogni tanto qualcuno questo blog lo legge, anche per scrivere la seconda puntata di quel post che avevo in mente da un po', visto che nel frattempo ho scoperto altre cose rispetto alla questione.

Una è che su wikipedia dicono tranquillamente che "sticazzi" a Roma significa "e chi se ne frega" e al nord invece indica meraviglia e stupore davanti a qualcosa di clamoroso: non si dice nulla del fatto che l'espressione sia di origine romana e solo successivamente si sia diffusa (con significato improprio) altrove, come uno di quei tormentoni di cui parla appunto Bartezzaghi, ovvero quelle espressioni che a un certo punto iniziano ad andare di moda oltre i loro confini originari.

Un'altra, a parte questo sito, è un'intervista a Enzo G. Castellari apparsa su Ciak! di maggio 2009 in occasione della presentazione a Cannes di Inglourious Basterds di Tarantino, il quale ha ripreso il titolo del suo film da uno di Castellari (che considera suo maestro), intitolato all'estero Inglorious Bastards, in Italia Quel maledetto treno blindato.
E proprio parlando di titoli, il regista italiano dichiara:
"Io ho una teoria romanesca: il titolo funziona se ti fa esclamare di cuore "me' cojoni!", non funziona se la reazione è "...e sti cazzi". Inglorious Bastards? "Me' cojoni!", "Quel maledetto treno blindato"? "...e sti cazzi".
Spesso sono riuscito a convincere i produttori (Vado l'ammazzo e torno: "me' cojoni!"; La polizia incrimina, la legge assolve: "me' cojoni!". A volte no: La battaglia d'Inghilterra: "...e sti cazzi"."

Come si vede, la differenza è chiara.
Ma la cosa più importante dell'articolo del Venerdì è un'altra, e cioè che ho scoperto di aver fatto un errore madornale, di cui devo fare ammenda.
Avevo infatti interpretato "me cojoni" come contrazione de "i miei coglioni", facendoci su anche delle analisi; scopro invece da Bartezzaghi che "me cojoni" sarebbe in realtà "mi coglioni? mi stai coglionando? mi prendi in giro volendo farmi credere una cosa così incredibile?". Un modo sboccato, insomma, di dire "davvero"?
Probabilmente sono stato indotto all'errore dal tono esclamativo con cui si pronuncia l'espressione: l'interrogazione -pur retorica- originaria, infatti, si è ormai persa, e "me cojoni" viene pronunciato a metà tra "accidenti" e "però", e dunque non ho mai sospettato che ci fosse una domanda, finendo per attribuire significato ed etimologia errati all'espressione. Errore di cui chiedo venia e faccio ammenda pubblica qui.

Però... a pensarci bene, dire "coglionare" per "prendere in giro" è come dire "mi tratti da coglione", implicando che un coglione (in senso anatomico) sia qualcosa di scarso valore: e qui si torna al discorso dell'altro post sul punto di vista neutro maschile, per il quale i coglioni (sempre anatomici) valgono poco a) perché ce li hanno tutti b) perché all'uomo non interessano (ribadisco che il punto di vista omo nella cultura popolare non è contemplato).
L'altro discorso, quello per cui davanti a una cosa clamorosa si nomina qualcosa di sacro o importante tipo "per Giove", è invece confermato dall'espressione che in romano e dintorni è "fregna!" ma che è diffusa in tutta Italia nelle specifiche varianti dialettali (ho sentito con le mie orecchie un amico di Cremona esclamare "figa!" con lo stesso identico significato di commento stupito).

E quindi, alla fine, in qualche modo tutto si tiene.



P.S.: Riguardo all'ultima esclamazione citata andrebbe ricordata una poesia di Cesare Chiominto che però in rete non trovo; mentre sorvolo io sulla famosa barzelletta dell' ejaculatio praecox...

venerdì 24 luglio 2009

Ma Phil Collins ha copiato Ivan Graziani?

Tristezza: ha chiuso napster.it, il sito sul quale ho esordito come web-recensore di musica (su carta avevo emesso i miei primi vagiti -o latrati- sulla rivista di movimento "Il Nettuno").
Mi sa che è successo un po' di tempo fa, ma non me ne sono accorto subito.
E' un peccato, c'ero affezionato perché appunto gli dovevo il mio esordio, e tra l'altro gli articoli me li avevano anche pagati: da non credere.
E benché non ci collaborassi più (tralascio la storia, l'ho capita poco anche io) mi faceva piacere sapere che i miei scritti fossero ancora lì: anche perché è stato grazie a quegli articoli in rete che il direttore di sentireascoltare mi ha ammesso tra i collaboratori.
Ho deciso perciò di ripubblicarne uno, il più famoso di tutti, quello sul presunto plagio di Phil Collins ai danni di Ivan Graziani: lo definisco così perché l'ho ritrovato linkato o riprodotto varie volte in rete (sempre col mio nome, per fortuna).
Ora che la sua sede naturale, d'origine ha chiuso, mi pare giusto riportarlo a casa sua, quella dell'autore: pe' 'na volta che ho 2 grammi 2 di quasi-seguito che faccio, lo lascio andare?
L'articolo è del 2001 circa, per questo c'è scritto che la canzone di Phil Collins, del 1991, "è di una decina d'anni fa"; e tra l'altro nominavo anche Michael Jackson...


Ma Phil Collins ha copiato Ivan Graziani?

Quante volte avete sentito questa storia? Magari commentata con grandi tirate sul fatto che siamo troppo esterofili, che non consideriamo abbastanza i nostri talenti per seguire invece qualunque cialtrone straniero, che i nostri sono bravi quanto e più degli altri, tant'è che ci copiano, come Michael Jackson con Al Bano e così via. Magari avete pensato anche voi, un giorno, ascoltando la radio, che A groovy kind of love e Agnese si somigliano un po' troppo...
E dunque plagio, visto che la prima risale a una decina d'anni fa e la seconda è decisamente più vecchia.
Le cose però non stanno così, la faccenda è più complessa, e in tutta la storia Phil Collins è il piu' innocente di tutti. Ma andiamo per ordine.

Collins incide nel 1991 A groovy kind of love per la colonna sonora del film Buster di cui è anche attore protagonista. Ma il brano è una cover di un pezzo dei Mindbenders, uscito nel 1965, rifatto tra l'altro in italiano un anno dopo dai Camaleonti, con il titolo Non c'è più nessuno. Phil Collins dunque è innocente, non ha copiato nessuno, tantomeno Ivan Graziani.
Su Ivan Graziani torneremo più tardi; ora passiamo ad un'altra storia. Una mia ex ragazza mi raccontò che un giorno mentre si esercitava al piano, arrivò sua madre a dirle "Ma cosa suoni, Agnese dolce Agnese?". In realtà stava suonando un normale esercizio di pianoforte composto da Muzio Clementi, un musicista del Settecento che ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della didattica del pianoforte, la Sonatina op. 36 n. 5. Uno dei due compositori di Groovy kind... aveva studiato piano classico ... dunque è vero che A Groovy Kind of love è un plagio, ma non nei termini in cui si crede.
Nella sezione "plagi" del sito http://www.spotmusic.it [ormai scomparso da tempo] è possibile ascoltare campioni di questo e di altri casi di somiglianze sospette o certe. A proposito di questa canzone (o di questo esercizio per piano) i curatori del sito ne segnalano anche due successive "riprese" in ambito dance, ma non essendo io in possesso di questi dischi, e non potendo quindi leggere i "credits", non so se si possa parlare di plagi, covers o rielaborazioni.
La questione a questo punto diventa: cosa ha fatto Ivan Graziani?

Ci sono varie possibilità:
1) Ha guardato nel futuro e plagiato Phil Collins (... beh ...)
2) Ha plagiato i Mindbenders
3) Ha plagiato i Camaleonti
4) Ha plagiato Clementi, ignorando che avesse già provveduto qualcun altro
5) Ha scritto casualmente una melodia uguale (...mmmm... se possibile è più improbabile dell'ipotesi 1)
6) Ha semplicemente ripreso la canzone sostituendo il testo con uno di propria composizione, esattamente come avevano fatto i Camaleonti con i Mindbenders e come mille altri gruppi beat con decine di canzoni straniere.

Per dirimere la questione, sono andato a controllare alcuni dischi di Ivan Graziani. Non essendo riuscito a procurarmi una copia dell'album originale, per l'appunto Agnese dolce Agnese, ho controllato alcune antologie e live che non mi hanno chiarito nulla. In alcuni infatti il brano e' attribuito solo a Ivan Graziani (che significa plagio, perché è come se dicesse di esserne l'unico autore), mentre su un live c'è scritto "elaborazione di Ivan Graziani", che però potrebbe essere una attribuzione successiva a una segnalazione di qualcuno.
L'unica è trovare la vecchia edizione in vinile dell'album e controllare: Ivan Graziani in persona non può più dircelo ormai da qualche anno. Quello che emerge è che a quanto pare Clementi aveva inconsapevolmente colto nel segno: prima ha scritto una hit, poi però l'ha confinata in un libro di esercizi.
Sulla pratica in uso da parte dei cantanti di copiare, invece, non è il caso di insistere: è giusto stigmatizzarla, ma in fondo il rock è musica di arrangiamento, di esecuzione, di suono, di ritmo, e solo secondariamente di composizione: al riguardo, si puo' anche fare uno sforzo ed essere "Clementi"...

(Conclusione: dopo aver scritto e pubblicato l'articolo, un lettore del sito mi segnalò che in effetti sul vinile originale la canzone era attribuita al solo Graziani. Plagio, dunque.
Ma da chi? Ipotesi 2, 3 oppure 4? A giudicare da quanto scritto sui dischi successivi, si direbbe che l'abbia ripresa alla fonte; ma non è detto, perché dicendo di averla ripresa da Clementi non avrebbe dovuto pagare i diritti, mentre se avesse detto di aver ripreso A Groovy Kind Of Love -versione inglese o italiana poco importa- avrebbe dovuto pagare i Mindbenders.
Chissà...)

venerdì 26 giugno 2009

Blood on the Dance Floor

Negli anni '80 le cose non erano come oggi: scegliere se ascoltare Michael Jackson o i CCCP significava veramente scegliere la parte del Muro in cui collocarsi.

Io ero un giovane rocchettaro comunista, e mal distinguevo il soul e il funky dalla loro sorella "commerciale" disco-music (anche perché in alcuni punti i confini erano labili), quindi per me quella musica era il Nemico.

Certo, alla fine nel pop ci imbattevamo tutti, ci circondava; e prima di diventare rocchettaro al 100% Thriller me l'ero fatto regalare anche io. Alla fine però quella musica non la amavo, e col soul e con il funky ho tuttora qualche problema: non sono i miei generi preferiti, anche se ogni tanto esprimono dei pezzi sublimi: quando me ne piace uno mi piace veramente TANTO.

Per vari motivi, perciò, non amavo Michael Jackson (men che meno i dischi successivi a Thriller), e quando parlavo di musica con gli amici per me era addirittura il paradigma della musica "commerciale", finta e di scarso valore (successivamente l'ho sostituito con Jovanotti e poi con Gigi D'Alessio).

Al riguardo, ricordo ancora un veejay di Videomusic che, evidentemente commentando le prime stranezze che uscivano sul conto di MJ, disse "è solo un ragazzo che vuole fare musica, della BUONA musica...".

Quel "buona" mi colpì parecchio: come "buona"? Per me era il simbolo della pessima musica (il fatto che fosse eccellentemente suonata non lo sapevo né consideravo, e forse conta fino a un certo punto), come si poteva definire "buona"?

Capii cosa significava "buona" musica per un certo tipo di mentalità: quella che non era "sporca" e "cattiva" come i miei amati Rolling Stones o altri che mano mano scoprivo in quegli anni, era quella rassicurante, che evitava imperfezioni, stranezze e difficoltà di ascolto: il Nemico, come ho detto. Tutto sommato fu un pezzetto di costruzione di identità anche questo...


Eppure, nonostante ciò, per chi ha la mia età c'è poco da fare: Michael Jackson è stata una figura centrale, più per noi che lo abbiamo visto passare da cantante famosissimo a Re che per chi è arrivato dopo e lo ha trovato già sul trono. E suona proprio strano pensare che sia morto (verrebbe da dire "Già?"), in particolare dopo tutte le ossessioni salutiste (per modo di dire: che cazzo di salute è sfasciarsi la faccia a furia di plastiche che, in teoria, avrebbero dovuto migliorarne l'aspetto?) arrivate al livello di barzellette macabre.

Sì, suona strano e pure un po' triste, dopo tutto quello che è uscito negli anni su di lui: le percosse da bambino, le manie da star, le accuse di pedofilia, la follia di una fama che arriva al punto di mettere statue di vetroresina in non so quante piazze del mondo per pubblicizzare il nuovo disco, in un momento in cui la sua musica era in declino, finendo per vendere sì due milioni di copie, le quali però vista la pubblicità e il nome risultano poche (roba che ci sono intere scene musicali che non hanno venduto due milioni di copie).

Ecco, forse in mezzo a queste follie mediatiche la cosa più sana da fare sarebbe stata concentrarsi sulla musica e basta, sentire i dischi e valutare quelli, e il resto fuck.

Al riguardo, siamo in epoca di revisionismi e di rivalutazioni: io come tanti altri rocchettari sono riuscito, se dio vole, ad andare oltre lo schematismo "rock=autenticità=buono" contro "disco=commerciale=cattiva", riconoscendo la bellezza che ogni tanto c'è anche nel pop e/o in generi che frequento poco, senza però che questo significhi rivalutare tutto: qualcosa sì, ma per esempio Jackson continuava a non piacermi. Vedevo qualche video e mi arrivava qualche notizia perché era impossibile sfuggire, ma stop.

Oltretutto, per quel poco che sapevo anche gli amanti del genere non stimavano granché la sua produzione recente figuriamoci io. Magari si sarebbe ripreso, la creatività va e viene; ma passi successivi non ce ne saranno dunque non lo sapremo.

Perciò alla fine, dispiacere per l'essere -ma sarebbe più adatto "il caso"- umano (ma tanti stanno peggio e non ce li filiamo, allora i poveri? e la vittima iraniana? ecc... d'accordo, d'accordo), relativo per l'artista che, a parte episodi, ho generalmente amato poco e un curioso senso di vuoto per la scomparsa di un pezzo non ignorabile nel mondo dell'immaginario.


Ma una cosa va detta: quando ballava lo avrei guardato per ore, in quello era veramente soprannaturale.

Abbiamo perso un ballerino sublime, quello sì.

giovedì 4 giugno 2009

La biblio eccetera


Una poesia sul lavoro che ho fatto per circa 9 anni, ovvero ricollocare i libri che tornavano dal prestito e quelli consultati in biblioteca della Normale.
La poesia è una riscrittura de "La metro eccetera", di Battisti periodo Panella: "la metro" è un'abbreviazione colloquiale, quindi "la biblio".

C'è una parte che non mi convince tanto (sì, una sola), vediamo se dal dibattito esce qualcosa - soprattutto vediamo se esce un dibattito...


La biblio antica, enorme,
fondi ricchi parecchio
la riordino ogni giorno che Dio manda

tra un saggio ed un compendio,
alzo un semi-stipendio
compendio il mio non esser saggio
col lavoro orrendio.

In biblio hai seduti di fronte
sguardi che se ne vagan dal libro al vetro
seguon ragionamenti, idee, presentimenti,
deissi intradiegetica, eccetera

Ticchettano le scale
la fatale
fanciulla si avvicina allo scaffale;
ti guardo tra i palchetti
mentre a scriver ti metti
co’ occhiali di Costello e di Lolita.

Bella, nera e altera come può esser sera,
austera d’aria seria
mie ginocchia flosce
quand’occhio riconosce i suoi begli occhi,
sulle galosce cosce di camoscio.

Studiano trigonometria
gli utenti-frati, invece, oppure versi alessandrini;
a capo chino, fissi,
senza sussulto, fatti di vetro,
mentre quando lei appare io sussulto.

In biblio ti distrai
dalla Dewey
e dall’eccetera eccetera
quando appare tremante veranda di lettrice
la mente esce madda
non solo dietro a Gadda.

Ma, donne a parte,
e giornali e giornaletti, qui ha successo chi dice:
“In caso di necessità romper le regole”
e “tutti trasgressori saremo”, eccetera

In biblio è più lontano
il medioevo prossimo e rallenta.

Qui mi faccio il sedere,
ore in croce:
metà di 36
su scale salgo mobile,
su per pareti vo
a rimettere a posto
‘sti libri, ne ho un quintale

e un metro, e accelero,
son celere, decelero,
e chissà se avrò la pensione.



Ora, se vuoi confrontarla con l'originale, fai partire il video qua sotto, poi torna all'inizio della poesia e leggi il testo seguendo Battisti.
Buon divertimento...


venerdì 22 maggio 2009

PRO COCCINEA JOHANNEI - In difesa di Anywhere I Lay My Head.


Lo so che è passato qualche mese e ormai non è più argomento caldo, ma io a mettermi a scrivere sono lento; dunque provvedo ora a dedicarmi alla nobile attività di sprecare neuroni e battute per difendere i passatempi di una miliardaria.
L'argomento infatti è Anywhere I Lay My Head, il disco di Scarlett Johansson che, dice la rivista Ciak!, "il popolo di Internet ha stroncato". Ma era davvero così tremendo?

Cominciamo intanto col dire che il popolo della rete è fatto dalle stesse persone del mondo reale: non è quindi chissà che autorità, è come appellarsi al verdetto del pubblico che, visti gli orrori con cui infesta le classifiche del mondo reale, dimostra di possedere buon gusto per la musica in misura MOLTO limitata.
Non vedo quindi il motivo di citare come importante l'opinione di questo popolo -ma plebe sarebbe meglio- se non per leccargli il c... ahem, ingraziarseli in quanto lettori (o perché detto così sembra un giudizio collettivo quando in realtà il Guardian e sentireascoltare, per esempio, ne hanno parlato bene).

E a giudicare da com'era stato presentato, il disco sembrava mirare proprio a un pubblico di babbei presuntuosi e superficiali, ovvero a un pubblico odierno (non che in passato fosse tanto meglio, ma si limitava per lo più a essere bue: ora ci ha aggiunto anche la presunzione, tanto per stare meglio) cui offrire il massimo del cool: la bella star di Hollywood, che però suona con musicisti più o meno indie, interpretando le canzoni di Tom Waits, il cantante taaanto profondo e taaanto raffinato, con la presenza in 2 canzoni di David Bowie a rendere più affascinante il tutto.

Sia chiaro: Tom Waits raffinato e profondo lo è davvero, ma qualcuno ricorda l'odioso personaggio maschile nel terrificante trailer di (credo) Il Tempo Delle Mele 3?
"Ekkikkazzo l'ha visto?", direte giustamente voi (tra l'altro si chiamava così solo in Italia, perché c'era Sophie Marceau, in realtà il titolo originale era L'Étudiante e con gli altri due non c'entrava una beata).

Il film non l'ho visto neanche io, ma nel trailer c'è un frammento di scena in cui il protagonista, dopo che SM gli ha detto che ama Tom Waits, tutto sorpreso di aver incontrato un'anima gemella in un mondo tanto brutto e gretto, dice "ma come, anche tu ascolti Tom Waits?" sottointendendo che quindi ANCHE lei è un'anima bella e sensibile (col vago, insopportabile sottointeso di lui sul trono che approva: "però, da te non me l'aspettavo che fossi intelligente, invece hai visto? via, va', l'esame l'hai passato, me sa che poi esse pure bona pe' qualc'altra cosa oltre che chiavare, posso concederti qualche pezzettino della mia preziosa anima perché, pat pat, tutto sommato te lo sei meritato"); per di più con una faccia come se lei avesse detto che leggevano lo stesso oscuro poeta birmano del '300: vabbè che Tom Waits è particolare, ma all'epoca erano già 15 anni che faceva dischi per grosse etichette, non era mica il nipote segreto di Fraccazzo da Velletri.

Comunque, questo era per dire che citare TW per mostrarsi raffinati è facile, fa figo. Però ascoltare davvero i dischi è un altro paio di maniche: quelli da Swordfishtrombones (1983) in poi, infatti, non lesinano di certo melodie e passione, ma abbondano anche di pentole, voci gracchianti, minimalismo strumentale, dissonanze, estetica della bassa fedeltà, con un risultato non proprio per tutti i palati. Sarò o sarò stato ignorante, sarà che non ne conoscevo ancora altri, ma io al primo ascolto volevo tirare Frank's Wild Years dalla finestra; poi qualcosa mi disse di riascoltare con attenzione e ora lo adoro, ma l'impatto non fu facile, e vorrei vedere quanti tra gli ammiratori di Scarlett troverebbero facili non solo i dischi della seconda fase, ma anche la rasposità da night club di quelli degli anni '70.

Anywhere I Lay My Head sembrava perciò l'uovo di Colombo: ammantare canzoni belle e di spessore, e con fama di spessore, di una veste "amichevole", che ne smussasse gli angoli e le rendesse appetibili sia per un pubblico incapace di concentrarsi su qualcosa per più di 10 minuti e che non vedeva l'ora di sdilinquirsi a cantare Time guardando, romantico e compiaciuto della propria profondità up-to-date, le (ragguardevoli, peraltro; va detto) tette dell'attrice; sia per i supermercati e per tutti quei momenti che in tv serve la canzone "bella" ma di una bellezza commestibile e assolutamente poco impegnativa.
Così un altro tipo di furbetti, decisamente più profondi ma in questo caso a sproposito, sospettando che le dichiarazioni d'amore della Johansson nei confronti del buon Tom servissero solo a dare una parvenza di onestà a un'operazione del genere (consapevolmente o meno poco importa), si sono affrettati a dichiarare che non l'avrebbero mai ascoltato perché troppo intelligenti per cadere in queste trappole dell'industria discografica.

Ora, è vero che l'arte di raggirare il consumatore ha visto da tempo fiorire i suoi Leonardi e i suoi Michelangeli e probabilmente li ha anche superati di brutto; che le sòle ti aspettano col coltello tra i denti a ogni angolo; e che un mondo come quello dell'arte e dei media, nel quale la sincerità viene venduta come valore (commerciale) prezioso, dev'essere ipocrita per forza - e definirci "consumatori" è il raggiro più grande di tutti; è tutto vero, d'accordo, ma qui dimentichiamo 2-3 cose.

Una è che nell'arte, dalla più nobile in giù, conta sì il cosa ma è assolutamente fondamentale il come. Per cui anche dischi pop nati con solida vocazione di meretricio possono essere fatti con arte e gusto, risultando piacevoli, divertenti, d'evasione senza la pretesa d'essere altro e quindi giusti (vedi i dischi di Grace Jones, fatti sì per sfruttare il personaggio, ma realizzati con musicisti, canzoni e risultati di prim'ordine); al limite anche sfacciatamente ipocriti ma con classe (e qui chissà perché mi riviene il nome di Bowie, periodo Let's Dance).

Seconda cosa, gli attori americani non sono come gran parte di quelli italiani, i quali vengono pagati per recitare e non sanno fare neanche quello: quelli americani quando escono dall'actor's studio sanno ALMENO recitare e un minimo cantare e ballare. Parecchi gli esempi: Gene Kelly era attore o ballerino? Entrambi, ovviamente. E Frank "The Voice" Sinatra, non era anche attore? Lasciamo perdere i film di Elvis, Marylin Monroe nei film cantava senza problemi ( e anche per il Presidente...), Bruce Willis personalmente l'ho sentito nominare prima come cantante che come attore, e chiudo con lo splendido Chris Isaak di Fuoco, cammina con me. Ma ce ne sarebbero altre decine: perché dunque escludere a priori che un'attrice possa fare un buon disco?

E il terzo punto è proprio qui: perché a priori? Possiamo essere consapevoli di tutti i meccanismi dell'industria culturale che ci pare, possiamo fare le premesse che vogliamo (e alcune vanno fatte), ma stiamo parlando di MUSICA, di un DISCO, i giudizi si danno DOPO l'ascolto, anzi dopo GLI ascolti (uno, si sa, non basta), non PRIMA.


E cosa ci dicono gli ascolti? Intanto, che il famoso uovo di Colombo è stato lasciato nel culo della gallina, ossia l'operazione commerciale furba NON è stata messa in atto per niente: gli angoli non sono stati smussati, anzi, il suono è davvero a bassa fedeltà, e dal repertorio dell'artista di Rain Dogs non sono state pescate neanche le più famose: quanto a osticità siamo ai livelli degli originali waitsiani, se non peggio. Ecco come perdere subito mezzo pubblico...

L'altra metà si è fatta sconvolgere dalla voce: è noto che la Johansson, nonostante ciò che può suggerire il suo aspetto, ha una voce molto grave. Sul disco usa vari registri, e soprattutto non si preoccupa delle dissonanze: Fanning Street, dove i coretti del Duca non sono lì tanto per metterceli ma rinforzano il crescendo del brano, risulta leggermente sguaiata, sicuramente c'era un modo diverso di cantarla. Ma il gioco sul filo della stonatura di Town With No Cheer è assolutamente azzeccato e dà alla canzone un filo di inquietudine e disagio che ben si accordano col testo.
Falling Down non è una delle mie preferite di Tom Waits e in questa come nella title-track l'impostazione vocale non sembra tanto in linea con la canzone.
Ma questi semmai sono errori del produttore: la Johansson come cantante è una 24enne al primo disco, i produttori servono anche a fornire esperienza agli esordienti vigilando con quattro orecchie.
E David Sitek, che strumentalmente ha fatto un ottimo lavoro creando un'atmosfera da circo sgangherato coerente in sé e vicina all'autore, riguardo alla voce un paio di errori li ha fatti: quelli suddetti come anche quello di affondarla troppo tra gli strumenti in brani come ad esempio Green Grass e I Don't Wanna Grow Up - questa danzettara e divertente ma un po' moscia.

Quando però la bionda canta I Wish I Was In New Orleans, per esempio, non dissona né stecca, lo stesso quando canta Song for Jo (che ha scritto lei), il che dimostra che le dissonanze sono scelte, e sono SEMMAI difetti: perché ovvio, i gusti non si discutono né la libertà di non apprezzare qualsivoglia opera di qualsivoglia ingegno e ugola, ma sia chiaro che questo è un disco indie/lo-fi, Hollywood e dintorni non c'entrano niente, appartiene a un genere di cui la maggior parte del pubblico de La ragazza dall'orecchino di perla non ha neanche idea. Siamo piuttosto dalle parti di un Will Oldham/Bonnie Prince Billy, ovvero sull'informale sfrontato, oltre quel regno post-grunge -in mezzo al quale, vista l'età, la Johansson è cresciuta- nel quale la stecca e la dissonanza sono arte, se ne può fare poesia (come nel modello, tra l'altro).
Certo, non è un disco da 9, o da 8: è un buon disco, una rilettura curiosa del canzoniere dell'uomo di Pomona realizzata con qualche incertezza e qualche scelta che non convince - ma come detto, perfettamente naturali nel disco di un'esordiente e semmai da imputare soprattutto al produttore.
Comunque non è certo il disastro di cui hanno parlato in tanti che i disastri ce l'hanno in testa e nelle orecchie.

mercoledì 20 maggio 2009

RIDI, SU

Nel mezzo del cammin di no… STA CEPPA!
Forse perché l’imago de STA CEPPA!
E con la faccia pulita cammini per strada mangiando STA CEPPA!
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e que… STA CEPPA!
Immagine there’s STA CEPPA!
Weeee … are STA CEPPA!
Sapore di sale, sapore di mare, che hai su STA CEPPA!
Il kobra non è una biscia, ma STA CEPPA!
Lunga e diritta correva STA CEPPA!
M’illumino STA CEPPA!
Le donne, i cavalier, l’arme, STA CEPPA!
S’i’ fosse foco arderei STA CEPPA!
Che confusione, sarà perché STA CEPPA!
Ridi buffone, per scaramanzia, così STA CEPPA!
Soffro lo stress, io soffro STA CEPPA!
Essere o non essere, que- STA CEPPA!
Sono il re de STA CEPPA!
Ed io, avrò cura di STA CEPPA!
Napul’è mille STA CEPPA!
Le bionde trecce, gli occhi azzurri e STA CEPPA!
Gira su STA CEPPA! accesi…
Adesso e nell’ora della no… STA CEPPA!

lunedì 4 maggio 2009

AMORE UNIVERS(IT)ALE

Ti incontro ogni giorno a Informatica,
mi sembri parecchio simpatica;
io sono un po’ più letterato
ti invito a venire su prato.
Ti colgo e ti offro un bel fiore
come in un romantico amore,
ceselloti frasi tornite:
mi sorridi a 32 byte,
ti guardo radiosa e ti am
mi occupi tutta la ram,
la più bella sei tra le belle
mi parli in html…
che faccio, dichiaromi? Rischio?
C’è spazio per me nel tuo hard dischio?
di versi ti dico caterve
sovraccaricandoci i server
e se qualche frase è non lieta
allora farò mela-zeta.
Ma adesso dobbiam lascia’ il prato:
il giorno ormai è overclockato.
Vediamoci in altre ore;
ti ho masterizzata nel cuore.
Ti chiedo, fanciulla assai bella,
la password della tua casella:
ti vengo a trovar martedì,
mi muovo via ftp,
ti porto un fiasco di barber
perché io lo so che cy-ber:
col vin chattiam sulle poltrone
browsando le nostre persone;
mi piaci davvero, lo sai?
Noi comunichiamo in wi-fi,
e mentre parliam di frattali,
scopiamo come due animali?
D’amore per te mi sfinisco,
non è rigido solo il disco,
son già tutto nudo e assai cardo
perciò ‘sta poesia ti foruardo.
Ti supplico come un ossesso
ma… tu mi deneghi l’accesso.
Da quanto ti voglio io latro,
ma mi fai quattrocentoquat(t)ro,
mi neghi la carne, your flesh,
ed il mio cervello va in crash.
Mi vedi con il cuore a pezzi
però non ti shifti di un epsilon;
nel mio cuore hai fatto danni,
ma ciononostante mi banni.
Deluso ti volto la nuca:
stasera mi è andata Face-buca…
le lacrime sulle mie guanc
riprovo con control-alt-canc.
20/2/2009

giovedì 30 aprile 2009

Le 5 anatre

Me stavo a fa' LivingAsocial di Facebook da me, nel senso che non mi iscrivo ma... vabbè, non è importante, comunque facevo quegli elenchi "5 questo, 5 quello", quando a 1 tratto ho pensato: "e le 5 anatre, quelle di Guccini?"

Beh, eccole, e sono anche più di 5:

1 - quella che lancia maledizioni: l'anatrema

2 - quella che guarda le interiora: l'anatromia

3 - quella turca: l'Anatrolia

4 - quella di Hollywood: Lana TRurner

5 - quella dannunziana: La sera fieso-lanatra

guest stars:

6 - quella ligure: Sarz-anatra

7 - la quale fa i regali: anatr-ale

Un bello stormo, no?

mercoledì 8 aprile 2009

Feeeeim...

Ho scoperto con viva costernazione e profonda tristezza che un paio di miei amici, linkati anche qua accanto, pensano che io abbia il culto e la mania della gente famosa, delle/della celebrità; e citano a riprova (mah...) di ciò il fatto che io talvolta, ai concerti vado a parlare con i musicisti, facendomi poi spesso firmare i dischi.

Con quello che succede in Palestina, ma anche in Abruzzo, starsi a preoccupare delle cantonate dei tuoi amici sembra fuori luogo: c'è ben altro di cui costernarsi, dalle smaronate di chi ci rappresenta in giro per il mondo alla piccineria di chi dovrebbe opporglisi. Ma oh, a me dà ai nervi quando qualcuno mi attribuisce qualcosa che non ho fatto/detto o che non è vero: se mi giudicano male per qualcosa che non ho fatto mi ci incazzo, se mi ci giudicano bene mi imbarazzo.
Egocentrismo deviato, occhèi; ma è così, perciò questo post.

Che ci vado è vero (non in puzza: a farmi firmare i dischi), ma la storia del culto è falserrima, e mi dà anche fastidio che gente che conosco da anni prenda una cantonata simile.
Non disprezzo chi ha questo tipo di culto (anche se quando sul forum di Bowie ho letto la frase "noi che ci nutriamo di idoli" ho provato un brivido di disagio) e nemmeno chi segue il gossip: si tratta di amare una forma di narrativa i cui personaggi sono veri (le storie meno, ma vabbè), tutto qui, e ognuno ama il genere che gli pare.
Ma il fatto è che io questo culto non ce l'ho, per niente.
E allora perché farsi firmare i dischi? Perché andare a parlare con costoro?

Innanzitutto, sono fissato con musica, cinema e letteratura. E amo i libri, i dischi e i dvd come contenuto, ma anche come oggetti - e sti amici lo sanno pure: non è per culto dl "personaggi" che anni fa ho beccato la citazione di Gainsbourg in una loro canzone, ma perché ascolto i dischi.
E lasciamo perdere le discussioni avute con altri appassionati sì di musica, ma soprattutto -loro sì- di "personaggi" (più scambi di opinioni che "discussioni", in realtà), nelle quali cercavo di parlare dell'opera e mi si rispondeva sull'autore: chi se ne frega dell'autore?
Per me le cosiddette celebrità contano in quanto artefici di quelle opere che amo tanto e stop: sono d'accordo con chi ha notato che non sapere nulla di Omero, nemmeno se sia davvero esistito, non ci fa apprezzare di meno l'Iliade e l'Odissea.

Se vado a cercare musicisti, attori, autori vari è solo per:

1 Fare loro domande sulle loro opere, se ho da farne;
2 Farmele firmare: con la firma dell'autore l'oggetto supporto smette di essere una copia uguale alle altre ed acquista un minimo, se non di unicità, di personalizzazione. Per me che sono affetto da un vago feticismo, cambia.

L'unico altro motivo per cui vado a cercare una cosiddetta celebrità è se devo intervistarla per il sito (che rientra nel caso 1), o se mi attrae sessualmente; ma essendo impegnato anche questa cade. Però per dire: se mi avvicino a Catherine Zeta-Jones è perché è famosa o perché avendo io gli occhi ed essendo etero e vivo avvicinarla viene da sé? O invertendo: tra Paris Hilton e my woman non ho mezzo dubbio...
Tutt'al più, se dopo un concerto in un locale piccolo il/la cantante resta in giro e sembra simpatico/a, anche questo può portarmi a cercarlo/a: ma come cercherei una persona qualsiasi che sembra simpatica in una situazione che facilita i rapporti, la celebrità non c'entra nulla.
E balbettare lo faccio pure davanti a certe persone che mi mettono a disagio, e che il mondo non se le skioppa neanche di striscio.

Certo, nel mondo mediatico in cui viviamo si verifica uno strano effetto: quello che persone concrete e reali vivano contemporaneamente nel mondo fisico e in quello immateriale. Per cui Mick Jagger e Achille piè veloce, o Corrado Guzzanti ed Emma Bovary, Laura Palmer e PJ Harvey vivono (vabbè, Laura Palmer un po' meno) nello stesso ir-reame. A quel punto vedere uno di questi personaggi in carne e ossa può essere curioso.
Io però ai concerti non mi sono MAI emozionato pensando "finalmente ho davanti a me in carne e ossa proprio LUI, il grande divo": mi emoziono quando suonano bene, e quei rari momenti in cui arrivo a percepire che quel tizio sul palco, seduto con la chitarra a cantare "La locomotiva" è allo stesso tempo seduto a pochi metri da me e presente nel mondo immateriale dei dischi, delle riviste, delle radio, della tv, come se uscisse da se stesso e si espandesse: che è strano, in effetti.

Sennò, la sola altra celebrità che mi interessa è la mia. Per cui potrei cercare qualcuno di costoro per farmi aiutare nella mia improbabilissima scalata al successo.
"Ecco", si dirà, "in realtà il mito del successo in qualche modo ce l'hai".
Macché: il successo non è un traguardo - può svanire da un momento all'altro - né un valore: semmai un mezzo.
Per due fini:

1 Soddisfare la propria vocazione creativa sapendo che quello che fai viene ricevuto, che le tue opere riscuotono attenzione, che ciò che dici arriva a qualcuno (è questo l'eventuale mio successo che ho in mente: pensa come sto messo...).
2 Se si vuole vedere invece meschinità ovunque, allora diciamo soddisfare l'egocentrismo, stavolta attraverso opere (quindi, tornando all'inizio, per qualcosa che HO fatto).
3 Successo poi significa guadagni, e guadagnarsi da vivere con le proprie opere, oltre ad essere una soddisfazione sublime, permette di dedicarsi in beata pace all'arte senza gufi che predicano su "lavori seri" e "piantarla con le minchiate".
Ora, la mia celebrità la vedo molto improbabile; ma in caso i termini sarebbero questi.

Delle altre ho detto, del resto proprio, lo giuro, mi importa una beneamata.

lunedì 2 marzo 2009

Una cosa molto romana...

Tempo fa parlavo con un mio amico di Pisa, città dove vivo, il quale, raccontandomi delle sue conoscenze romane fatte per lavoro, notava in alcuni dei miei concittadini questa visione un po' urbecentrica del mondo.
Come esempio citava la frase "dai, andiamoci a mangiare un cornetto a mezzanotte; è una cosa molto romana", che come cosa non è strettamente romana, ma si fa ovunque.

Io lì per lì ero d'accordo: in effetti può capitare che se vivi in una grande città e hai girato poco ti convinci che tutto quello che ci si fa, specie se particolare, sia esclusivo della tua metropoli.
Però poi ho ripensato a questa frase immaginandomela detta dai miei concittadini, e lì ho capito.
Anche se non è linguisticamente molto corretto, questa frase non vuol dire "è una cosa tipica di Roma", "caratteristica o propria di" né "inventata a":
se ho presente il mio dialetto e i miei concittadini, "è una cosa molto romana" significa "a Roma si fa molto", "i romani lo fanno spesso".

E' un piccolo spostamento di significato, non lo spiego grammaticalmente perché ci vorrebbe un'eternità e sarebbe inutile, tanto così si capisce -spero- lo stesso;
ma, pur essendoci molti miei concittadini con la mentalità imperiale, molti romanocentrici, e anche molti ignoranti che non sanno niente del mondo, almeno questa gliela possiamo togliere.

Quelli che frequenta il mio amico stavano quindi semplicemente dicendo "andiamoci a mangiare un cornetto a mezzanotte, qui si fa sempre".

O almeno si faceva: l'ordinanza di Alemanno vuole impedirlo, dirimendo così la questione linguistica.
D'altronde anche i fascisti son, ahimè, una cosa molto romana...

martedì 17 febbraio 2009

Er sessantotto

Leggo sul bel libro di Federico Fiumani (che ho "scoperto" solo di recente) "Dov'eri tu nel '77" un brano su qual era il vero pubblico di De André.
Fiumani sostiene, parzialmente a ragione, che in realtà il pubblico di Faber fosse un certo tipo di borghesia masochista, che aveva il potere ma gli piaceva sentirsi insultare.
Si può essere più o meno d'accordo: quello che proprio non condivido è il solito discorso sul '68 per cui i rivoluzionari erano i borghesi mentre i proletari erano dall'altra parte, quella dei poliziotti; e al riguardo Fiumani dice anche che i proletari gli preferirono altri cantanti di estrazione popolare perché avevano capito che De André non era uno di loro. E per fortuna che ci risparmia la citazione della poesia di Pasolini "Il PCI ai giovani".

L'unica volta, credo, che sono stato d'accordo con Adriano Sofri (con Luca non mi è ancora successo) è stata quando, durante un'intervista in cui si parlava del '68, gli chiesero di quella poesia e lui spiegò che Pasolini odiava il paternalismo, e che l'ultima cosa che avrebbe fatto davanti a quel movimento sarebbe stata dirgli "bravi" con tanto di pacca sulla spalla, e che il modo che scelse per rapportarsi a quei giovani fu quello della provocazione, e citava anche alcuni incontri che fece con gli studenti durante i quali si chiarirono, e dove spiegò tra l'altro che non parlava di tutti gli studenti.

Ma Pasolini a parte, dire che il '68 era fatto di ricchi borghesi che protestavano contro i bravi proletari poliziotti significa ignorare qualche elemento fondamentale, significa semplificare male.

Intanto, il '68 è stato fatto anche dagli operai, che nel '69 otterranno infatti lo Statuto Dei Lavoratori (sì, metto maiuscolo pure il "Dei"). Secondo, che nella lotta per una vita migliore c'era compresa anche la possibilità per l'operaio di avere "il figlio dottore" (il che mi sta particolarmente a cuore visto che due generazioni fa da parte di mio padre si zappava la terra, poi lui ha fatto l'operaio e alla fine io, pur un po' in ritardo la laurea l'ho presa: dal medioevo al postmoderno in 3 generazioni, un record).
Non lo diceva anche Gramsci "studiate perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza"? Non è stato detto da più parti che la classe operaia doveva attrezzarsi culturalmente per poter esprimere una sua cultura propria e suoi propri quadri, cosa che fino a un certo punto poteva fare solo la borghesia perché solo lei aveva accesso alla cultura più alta?

E poi: a parte che i poliziotti, proletari o meno, erano di fatto schierati dalla parte della reazione (e di proletari ne hanno pestati parecchi, altroché) - perché non basta essere classe oppressa, ci vuole pure la consapevolezza sennò sei come i contadini che aizzati dai preti reprimevano i moti rivoluzionari;
ma quest'idea, espressa da Fiumani, del proletario grezzo e ignorante che siccome in fondo ha una mentalità piccolo borghese e quindi ama le storie di chi partendo dal basso arriva al benessere e al successo allora compra Tiziano Ferro e altri, è proprio il modo in cui la borghesia vuole il proletariato - e attualmente è riuscita a farcelo diventare.

Infatti il '68, con i suoi borghesi che lottando hanno di fatto permesso a me e ad altri di andare all'università, è stato un ERRORE della borghesia. C'erano di mezzo anche gli operai, certo; e probabilmente l'ha fatto anche per smuovere una società stantìa, muffosa e plumbea, e la libertà sessuale piaceva anche a loro.
Ma di fatto avevano contribuito a realizzare uno degli obiettivi di qualsiasi comunista che ragiona, ovvero un proletariato sano e terragno perché appunto popolo, che però è stato raffinato a scuola. Alta cultura e appartenenza alle masse, per cui cervelli coltivati ma senza la distanza dalla gente comune.

Un cocktail micidiale, che i borghesi non appena accortisi dell'errore hanno provveduto subito a disinnescare - grazie anche al contributo fondamentale, almeno in Italia, di un politico che prima ha preparato bene il suo elettorato riducendogli in poltiglia il cervello, POI è sceso in politica raccogliendo quanto aveva seminato, quando ormai i termini della discussione politica erano quelli, angusti e semplificati fino all'insulto, che aveva stabilito lui.
Noi ci avremo sicuramente messo del nostro, io per primo, per non essere la MERAVIGLIOSA classe dirigente del futuro che avremmo potuto essere: ma anche molti sessantottini non è che siano proprio stati all'altezza di quello che avevano FATTO.

D'altronde la borghesia ci ha messo circa 700 anni a prendere davvero il potere: secondo voi se lo faceva togliere da un erroretto? Secondo voi arrivano due fricchettoni e tre operai rintronati dalla pressa e loro si fanno da parte? Seeee....

Ce ne abbiamo da correre, ce ne abbiamo da raffinarci: Fiumani, con le sue canzoni e le sue poesie ci aiuta a farlo, quanto può, e come ci aiuta qualsiasi artista che dia profondità alla nostra visione del mondo e delle cose, che ci aiuti ad articolarla.
Non chissà quanto, ma fa la sua piccola, onesta parte.

Però stavolta, per me, ha detto una minchiata, ecco.

giovedì 12 febbraio 2009

Io e il creatore 2

La notte scorsa ho avuto un'esperienza mistica. Stavo DIOrmendo e, ad un tratto, mi son sentito trasportare via: volavo nella notte verso un luogo lontano, DIOlcemente come se mi trasportasse un angelo.

Ed era proprio un angelo, che appena finito il viaggio mi ha detto: "Ecco, miscredente: siamo giunti nella Città di Dio. Vediamo se adesso ti redimi".
Io ero stupito ma mi sentivo bene, come se mi fossi appena lavato e DIODIOrato; e vidi davanti a me questa grande città, con una grande porta d'ingresso per accogliere le anime smarrite.
Visto il suo scopo, la porta era stata consacrata a colei che ha il nome di Ianua Coeli: mi trovavo infatti davanti a Porta Madonna, varcata la quale cominciai ad esplorare la città.

Era una bella città, c'era felicità DIOvunque,e le strade il nome ce l'avevano: infatti ad un certo punto ne ho imboccata una dedicata ad un pittore, Cagnaccio di San Pietro, e mi sono ritrovato davanti al parco.

Il parco è destinato ai bambini, ricordando la frase di Gesù che voleva che venissero a lui: si trattava infatti del Parco di Cristo, nel quale scorazzavano allegri e liberi anche alcuni animali.
Ed erano tutti animali di Gesù: il maiale, insolito per un parco, il cane e tanti altri, tra i quali una gazza parlante, cui chiesi: "Cosa ci fai nella città di Dio?" "Becco", rispose ovviamente lei.

Così le diedi alcuni frammenti di DIOscotti, e conversando amabilmente giungemmo al grande porto, che accoglie i pescatori di anime.
"Il Porto di Dio!" esclamai meravigliato, ma a quel punto mi sono svegliato ed ero nel mio letto.

Chissà perché, avevo la sensazione che in quella città non mi avessero ammesso.
Vabbè: amen...

giovedì 15 gennaio 2009

L'ideologia è in ottima salute

Un articolo sul Tirreno, credo dell'ultrà "democratico" Bruno Manfellotto (cricca di Repubblica, più o meno), nel quale si accusa di ideologia il Ministro brasiliano che ha negato l'estradizione di Cesare Battisti, mi conferma che sebbene molte ideologie siano in crisi ce ne sono alcune che prosperano.

E siccome io al concetto di ideologia ci tengo, se l'ideologia in sé prospera sono contento.

Come ideologie che prosperano, mi riferisco in particolare all'ideologia di Manfellotto, del Tirreno, di Repubblica: non certo alla mia o a quella -presunta- del ministro do Brasiu.

Mi spiego: siamo tutti scandalizzati per il processo ridicolo in base al quale è stato condannato Sofri, basato su un teste che definire inattendibile è poco e svolto con evidenti intenti persecutori da parte di quell'Italia destrerrima, talmente destra che non si ammanta nemmeno della "modernità" del PD, quella ultrareazionaria ben rappresentata da Libero, da Il Giornale, dai poliziotti di Bolzaneto e via horrescendo.
Dicevo, siamo tutti scandalizzati da una (in)giustizia traviata in questo modo, e per Sofri c'è chi ha raccolto firme e fatto altro nonostante il personaggio sia tutt'altro che simpatico perché ci pareva giusto e saggio cercare di lottare perché la legge pur borghese fosse quantomeno amministrata con equità e senso (non ridete troppo forte, dai, non è educato...).

Quando però si passa a Cesare Battisti, non l'austromarxista irredentista trentino, bensì lo scrittore di gialli con un passato opinabile, ecco che la capacità di scandalizzarsi e l'ansia di verità improvvisamente spariscono.
Anche nel suo caso, infatti, c'è stato un processo ridicolo basato su un pentito sbugiardato decine di volte, ma tutte le campagne fatte a favore di Sofri, tutte le voci illustri che si sono levate in occasione del processo per l'omicidio Calabresi, nel caso Battisti hanno religiosamente taciuto.
Come mai?

C'è il discorso della lobby di Lotta Continua, certo, ma io credo sia più un fatto di ideologia: Sofri si è "democratizzato", ha scritto a favore dell' "intervento umanitario" dell'ONU, è un "democratico" -nella triste accezione odierna- fatto e finito quindi è simpatico: alla ultradestra no, ma diciamo che alle persone "normali" sì -e se non simpatico, almeno può essere difeso.
Battisti no; ed era anche in un gruppo politico comunista, ha rinnegato la scelta violenta ma non si è cosparso il capo di cenere, invece di fare l'italiano che parla parla ma al momento giusto piagnucola perdono si è pure messo ad esultare quando l'hanno liberato (strano, eh?): imperdonabile, sputiamogli addosso!

Non lo sa che in Italia senza un po' di teatro non ottieni nulla? Non lo sa che in Italia devono scattare la lacrimuccia e la sceneggiata, e che per farti perdonare o difendere devi far sentire superiore a te chi ti appoggia, che devi metterlo nella condizione di dire "vabbè, oggi sono buono e ti perdono ma guai se ti fai vedere felice o libero: lo faccio perché mi devo sentire buono, mica perché è giusto"?
Poveretto, ci credo che viveva in Francia e in Brasile, qui che ci stava a fare?

E' debole la mia ricostruzione? Sì, non lo nego: ma è quella che fa fare ai media una figura migliore, perché sennò dovremmo pensare che tutti quelli che ci lavorano sono, o sono diventati, deficienti e/o ignoranti, che danno le notizie senza saperle.

Preferisco pensare all'ideologia: come diceva quello "meglio un bastardo di un cretino: il bastardo ogni tanto si riposa".

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Uno
Due
Tre