mercoledì 17 febbraio 2010

Sanremo 2010: prima serata

Alla fine tanto almeno un pezzo lo guardo, lo ammetto.
Stavolta ho guardato la prima serata, sentito tutte le canzoni, e siccome non ho voglia di riguardarlo le prossime sere - né mi sa che potrò - butto lì due commenti flying contravvenendo a uno dei miei comandamenti: che i dischi NON si valutano MAI (vabbè: con poche eccezioni) al primo ascolto, men che meno le canzoni che vedi in tv.
Esatto, che vedi: sanremi precedenti mi hanno insegnato che un conto è il primo ascolto con le immagini, tutto un altro sono i successivi senza immagini per radio. Per cui chissà.
Ma amen: è Sanremo, voglio di', anche se mi espongo a sontuose cantonate posso farmene una ragione.

Andiamo a incominciare con canzoni e altro; prima però un paio di cose:

-come tutti i sanremi, ci sono parecchie canzoni che iniziano anche bene, con soluzioni musicali perlomeno carine, che reggono a volte per tutte le strofe, salvo poi naufragare in ritornelli enfatici, mielosi e retorici; questa edizione non fa eccezione.

-sarò rintronato, ma qua e là ho sentito, nelle parti musicali (non nelle melodie né, dio ci scampi, nei testi) una vaga aria di De Gregori. Probabilmente si tratta di soluzioni di arrangiamento abbastanza classiche che ha usato tra l'altro anche De Gregori, più che essere proprio sue; però boh, ho avuto quest'impressione.

Bat nau de list:

-Intro: Laurenti meno odioso del solito, Bonolis classico nel suo non riuscire a nascondere che un po' ha studiato: quanti avranno capito cosa significava ossianici?

-Irene Grandi: anche se non avessi saputo chi ha scritto la sua canzone e mi avessero chiesto di indovinare l'autore l'avrei beccata al terzo verso: una bianconata totale, anche se non del Bianconi più ispirato. Passabile.

-Scanu: è uno di quelli in cui ho sentito un vago De Gregori. La canzone, venendo lui da Amici, è meno peggio di quanto temessi (ma nulla più).

-Toto Cutugno: cutugneggia meno del solito, anche qui siamo molto meglio di quanto temessimo, con una bella fisarmonica su un pezzo che avrebbe potuto cantare bene la Vanoni. Stupisce qualche incertezza nella voce di un vecchio leone suo pari, e anche il timbro rauco. Comunque, rispetto per esempio a L'italiano o Amori il pezzo sembra David Sylvian.

-Arisa: in confronto l'anno scorso sembrava sobria. Bello il trio en travesti, anche se quello che sembrava di più una donna si chiama Marco (i nomi degli altri due, Andrea e Nicola, almeno giocavano sul dubbio). La canzone è briosa e almeno diversa dalle altre. Quei congiuntivi mancati alla fine, però, sono da sberle.

-Cassano: un italiano medio, versione "non leggo" e "ho detto che mi piace Gigi D'Alessio ma devo precisare 'come cantante', non si pensi mai che sono checca". Qualche aforisma, però, posto che siano davvero suoi, non è male.

-Nino D'Angelo: nella sua ormai non più nuova versione world/folk, più Nuova Compagnia Di Canto Popolare che Mario Merola è molto meglio: infatti, eliminato.
La canzone, che sembra La camisa negra, contiene anche l'ottima rima "ampress (napoletano per "presto") / stress".

-Mengoni: che ci troverà Morgan… Qui hard rock da cartolina, sembra la canzone di Renga del Festival di qualche anno fa, o anche Cleptomania degli Sugarfree (ma senza quei due passaggi melodici e la metafora che facevano funzionare il pezzo dei catanesi).

-S. Boyle: il famoso video che l'ha resa celebre non l'avevo visto, perciò arrivo buon ultimo a dire che la voce ce l'ha. Se a uno piace Celine Dion lei va benissimo, non le manca nulla (anche qui sarò il milionesimo, amen).

-Simone Cristicchi: prima o poi ripubblico qui l'articolo in cui me la prendevo con quel pezzo ignobile che è Studentessa universitaria (ma più di due parolacce se le meriterebbe anche Ti regalerò una rosa).
Un personaggio che non ho capito: passa per arguto, originale, colto, "d'autore" ma, insieme a ciò che dà una parvenza di fondamento a queste opinioni, fa anche canzoni come le due suddette che lo squalificano brutalmente.
Il pezzo lo temevo quasi quanto quello di Povia, invece siamo sul Cristicchi alternativo, con qualche arguzia nel testo e una musica movimentata. Carino (ma sono sicuro che le parti migliori del testo siano quelle scritte da Frankie Hi-NRG, come vederlo).

-Malika Ayane: un'altra che partiva bene, con strofe ariose da macchina sul lungomare al tramonto negli anni '70 e che seppellisce la grazia dell'inizio sotto camionate di sanremeria da ritornello: peccato.
La voce vabbè, la conoscono tutti: io non sono di quelli a cui dà ai nervi, ma il rischio c'è.

-Pupo/Emanuele Filiberto/il tenore: inizio con batteria elettronica e chitarra classica anche bello, la parte di Pupo tutto sommato reggeva; poi vabbè, qui la retorica l'hanno portata con tre autocisterne e due vagoni speciali e ci ha messo poco a rovesciarsi sulla canzone e su di noi che ascoltavamo.
Il tenore a cantare il ritornello ci stava anche, benché aggiungesse enfasi dove ce n'era già ben oltre la soglia di tollerabilità. Nella sua bruttezza, però, il pezzo commercialmente poteva anche funzionare, rimane impresso; da lì a dire che non dovevano eliminarla ce ne passa, però; e infatti non lo dico.

-Enrico Ruggeri: ero uscito a fumare e ne ho sentita mezza: un buon funkettone rock, compositivamente sul livello medio del suo repertorio, che a Sanremo è praticamente oro. Dirigeva l'orchestra, ma guarda un po', Andrea Mirò: GAC.

-Sonohra: dovrebbero far sentire di più l'H del nome quando li presentano (è la cosa migliore del gruppo) e un po' meno le canzoni, ovviamente.
Ma per il pubblico attratto dalla presenza di uno di Amici andavano benissimo.

-Povia: ero pronto, benché talvolta io collabori ad un sito musicale di raffinatoni (chiedendomi ogni tanto che ci faccio là in mezzo), dicevo ero pronto a eliminare la raffinatezza e a commentare con un laconico POVIA VAFFANCULO, e tanti saluti: viste le sue gesta passate io e tutti quelli che hanno fatto polemica prima del festival temevamo il disastro.
Invece, benché anche qui la retorica abbia inamovibilmente assiso le sue enormi chiappe sul trono di questa canzone, devo ricredermi.
Musicalmente boh, gnentedeché; apprezzabile la scenografia coi due violoncelli con lo schermo dietro bicolore; ma ciò che temevamo era il testo.
Il quale snocciola sì qualche luogo comune su "che cos'è la verità" ecc… ma abbastanza finalizzato al contenuto, che invece di rifriggere qualche volantino di CL parla dell'amore tra i genitori ed Eluana, dice in pratica che tutta la storia era una questione tra loro sulla quale i portatori di "verità", appunto, non devono mettere bocca e che adesso, sottolineo adesso, Eluana è libera di correre e di volare.
Evitata dunque, e meno male, la temuta smielata catto-necrofila, è uscito un normale pezzo retorico-lacrimevole da Sanremo con un contenuto che - eccettuata la parte sull'al di là, in cui non credo - tutto sommato condivido.
Scampato pericolo, via.

-Irene Fornaciari/Nomadi: da lei tanto tanto, ma dai Nomadi una Sanremata così non me l'aspettavo. In radio potrebbe pure riscuotere successo.

-Noemi: brava, canzone e voce in stile vagamente '70 italiano (Mina/Vanoni, più o meno). Il pezzo è da risentire ma in generale m'è piaciuta, vedremo gli sviluppi.

-Fabrizio Moro: testo di quelli che a me bolscevico non dispiacciono, musica mmm… 'nzomma…
Non ho capito se sulla maglietta aveva Nico. Qualcuno può aiutarmi?

-Dita Von Teese: intanto, diciamo un po' facciona ma bella e che sono le sue.
Poi, la musica che ha usato era (almeno una parte) un riarrangiamento di Comic Strip di Gainsbourg: scelta arguta, visto che in inglese l'espressione vuol dire "striscia a fumetti" ma, essendo il burlesque seduzione ironica, può anche essere interpretato come "spogliarello comico".
Peccato non fosse disinvoltissima, il che mi ha fatto capire che lo spogliarello è una cosa difficile, parecchio, ed è per questo che le spogliarelliste venivano chiamate "artiste": ci vuole arte, appunto e tanta. Dita Von Teese ce l'ha, ma ogni tanto…

Per finire, lode alla Clerici e alla regia perché il tutto era se non altro abbastanza fluido e non è durato un'eternità; peccato per l'assenza di Morgan, che come prevedibile ha abbassato di parecchio il livello musicale della serata.

Su questa chiudo: dezzoll, (bi)folcs.

giovedì 4 febbraio 2010

Pennac: resoconto di un incontro col pubblico

Tra le mille cose per cui si può usare un blog questa non mi era ancora venuta in mente.

Anni fa (parecchi) andai in Campidoglio, credo presso la sala della Protomoteca ma non ne sono sicuro, ad assistere ad un incontro tra Daniel Pennac e il pubblico.
Naturalmente assistetti a poco: arrivato lì la sala era già piena, e io e altri fummo fatti accomodare in una saletta vicina nella quale c'erano delle casse acustiche che diffondevano almeno l'audio dell'incontro.
Non ricordo come ebbi l'idea di prendere appunti, ma l'ho fatto.
Certo, non è una trascrizione fedele: sono i miei appunti di quello che diceva l'interprete di Pennac, tra lo scrittore e voi ci sono almeno due filtri; e per di più in un paio di punti gli sono stato poco dietro, ho ricostruito.
Però è una testimonianza, ciò che diceva era interessante, quindi divulgo.
Buona lettura.

Appunti dell’incontro con Daniel Pennac, Roma, Dicembre ‘95.

Daniel Pennac: Ho iniziato facendo satira politica, poi un saggio, un po’ come Bulgakov; poi ho deciso di rompere con la priorità data al senso e di iniziare a raccontare storie: non potevo credere che nessuno, neanche gli intellettuali, avesse più voglia di ascoltare storie.

Intervistatore: Come mai un buono assoluto? Perché ha scelto un Malaussène come protagonista, cioé un buono assoluto? Pennac è un autore straordinario e coraggioso.

D.P.: Non sono un autore straordinario, l’altro giorno alla radio un critico stava dicendo “Non lo reggo proprio Pennac, è un coglione”, con una veemenza che gli faceva onore. Per quanto riguarda Malaussène, è la conseguenza dell’invenzione delle professioni, e viene giudicato per quello che fa. Il capro espiatorio ha una funzione sociale; io mi sono detto che un capro espiatorio unico, salariato, sarebbe più economico. L’idea viene da un libro del semiologo Renée Girard e l’ho caricata un po’. Poi da un’idea é diventata un romanzo. Céline ha detto che se alla fine della scrittura del romanzo l’idea da cui è nato è ancora lì, il romanzo é un fallimento.

Int.: Malaussène non esce mai da Parigi: potrebbe vivere in un’altra città, tipo Roma?

D.P.: Penso di sì, Malaussène è il prodotto di una città; io vivo a Parigi e scrivo lì. Se fossi stato romano M. sarebbe stato romano, e così via. Il fatto che voi siate qui dimostra che avrebbe potuto essere romano.

Int.: La saga di Malaussène sta finendo: non sono d’accordo!

D.P.: I critici che mi odiano mi fanno onore, perché vuol dire che sono diventato la ragione d’essere di qualcuno. Sulla fine di Malaussène ho un argomento: non si può trasformare un capro espiatorio in una gallina dalle uova d’oro.

Int.: Malaussène è già morto, in fondo; il problema è il figlio, Signor Malaussène, che promette bene.

D.P.: Riguardo alla “Prosivendola”, una signora mi ha scritto: “Ho letto il libro fino a pagina … (dove Malaussène viene apparentemente ucciso): dopo quello che lei ha fatto non potrò più essere sua lettrice”. Poi, dopo tre settimane mi ha riscritto dicendo di considerare nulla la sua lettera precedente perché una sua amica le aveva detto che Malaussène era vivo. Non è una tragedia che Malaussène finisca: in fondo finisce con una nascita, come nella vita. Il motivo è che mentre scrivevo “Il paradiso degli orchi” ho avuto l’idea de “La fata carabina”, mentre scrivevo “La fata…” ho avuto l’idea de “La prosivendola”, eccetera eccetera; mentre scrivevo l’ultimo ho avuto altre idee e voglio portare avanti quelle.

Int.: Malaussène aveva la caratteristica di essere sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. Suo figlio nasce in un obitorio: è ereditario il destino?

D.P.: Malaussène di ciò ha paura, dice che i capri espiatorii andrebbero castrati. E’ tipico degli uomini porsi problemi metafisici sulla procreazione; poi si radunano nelle case e costruiscono le bombe. Le donne sono più sagge, sopravviviamo grazie a loro.

Int.: Se hai un idolo, qual è? Cosa consigli come lettura buona e avvolgente?

D.P.: A queste domande semplici è difficile rispondere. Non amo gli idoli; ho amici, una moglie, non ho idoli. Per la seconda domanda, Johnathan Coe, “La famiglia Winshaw”. Struttura comica, ma perfetta. In confronto Malaussène è un manuale di razionalismo.

Int.: Modelli letterari?

D.P.: Johnathan Coe, anche se non lo sapevo ancora.

Int.: Conosce Rodari?

D.P.: No, ma tutti i bei libri che non conosciamo abbelliscono il nostro avvenire; ad esempio per voi Johnathan Coe…

Int.: Tornando ai modelli?

D.P.: E’ difficile, perché leggiamo, leggiamo, e tutto crea una base da cui nasce qualcosa. E’ più interessante vedere cosa si fa quando si ha voglia di leggere e si è già letto Johnathan Coe, per cui bisogna aspettare. In quei casi rileggo Shakespeare, anche se in modo stupido perché penso sempre che Desdemona ce la faccia. Leggo anche le novelle di Checov.

Int.: Un biglietto con una domanda dal pubblico: “Siamo contenti che Pennac sia a Roma, ma dov’è Julie Corrençon?”

D.P.: Riguardo a Julie ho già spiegato che non faccio autobiografia, te le devo dare? Quando uno crea una donna che piace, tutti pensano che l’autore stia parlando della propria. Julie è un archetipo: è una giornalista militante, moralista. Malaussène però la commuove, lui e questa famiglia, e anche Malaussène è attratto dall’umanità che vede in lei e che cerca di aumentare.

Int.: La traduttrice italiana?

D.P.: Ne sono contento, i Malaussène sono difficili da tradurre, alcune cose sono impossibili. Jasmine si è presa la libertà di di trasporle in un linguaggio che le rendesse, senza chiedermelo; e questo è possibile conoscendo la lingua d’origine, ma anche quella in cui si traduce. Il successo di questi libri in Italia è dovuto anche all’ottimo italiano delle traduzioni.

Int.: Il tuo rapporto con Benni?

D.P.: Devo alle traduzioni di Jasmine il fatto di essere qui, ma devo a Benni il fatto di essere pubblicato da Feltrinelli.

Benni ha a casa un trofeo, una testa di renna con grandi corna, in plastica: è una sua caricatura, c’è tutto lui. Lo conosco, ho letto in TV la novella del Bancomat ribelle. Amo questo tipo di umorismo acido.

Int.: Che vuol dire “La morte è un processo rettilineo”?

D.P.: Per rispondervi, vediamoci alla mia morte: non sarò un agonizzante esemplare perché mi arrabbierò, ma in quel preciso momento avrò la certezza che la mia vita è stata un processo rettilineo.

Int.: Il fatto che suo babbo fosse un militare ha influito sulla creazione di Belleville?

D.P.: Mio padre era un militare particolare, un sognatore; per questo non ho pregiudizi sui mestieri. Era una persona speciale. Una volta venne un suo sottoposto a dirgli “Il soldato XY chiede di essere esonerato dal servizio poichè affranto per la dipartita della consorte”; e lui “Ma che significa? Richiesta respinta!”; poi ci ripensò e disse “Ma che significa ‘affranto’?”; e il sottoposto “‘Dispiacuto’, Signore”; “E ‘Dipartita’?”; “‘Morte’, Signore”; “E ‘Consorte’?”; “‘Moglie’, Signore”. E lui “Ah, ma allora non è affranto per la dipartita della consorte, è dispiaciuto per la morte della moglie: permesso accordato”. (L’aneddoto l’ho trascritto a memoria, non è riportato fedelmente parola per parola; qualcosa è andato perduto. Il senso e la struttura erano più o meno questi, comunque)

Int.: Il nuovismo? Il nemico di Malaussène è Saint-Claire che è nuovo in tutto; lui disprezza tutto quanto è nuovo, ama i vecchietti.

D.P.: Non disprezza il nuovo, ma l’uso che se ne fa. Un sociologo inglese, in un libro intitolato La Tradizione del Nuovo ha detto che il nuovo è la più vecchia delle tradizioni. Mi danno fastidio le persone sciocche che si buttano a capofitto nel nuovo non capendo che è appunto la più vecchia delle tradizioni; come i dirigenti che cacciano il personale per lasciare un’impronta e invece creano disoccupazione.

Int.: Non c'è troppa attualità nell'ultimo?

D.P.: Si vedrà tra 30 anni, se sarà ancora letto, se l'attualità che c'è nel romanzo lo danneggia o no. Lo scrittore si nutre di memoria ma anche di attualità. E' difficile capire cosa invecchia in un libro; in Gide lo stile, in Proust nulla, in Joyce nemmeno; riguardo a Shakespeare le commedie sono più difficili da leggere nonostante facciano meno riferimento all'attualità.

Int.: Uno scrittore si nutre di tutto; oggi ci si confronta con molti mezzi di comunicazione: c'è chi esalta la differenza della letteratura e chi mischia tutto e con tutto si confronta. Pennac si confronta con tutto: cinema, fumetti, ecc…

D.P.: Credo che il romanzo rimanga lo strumento più duttile per percepire la realtà: per il romanzo bastano penna, carta, e il mio sapere, questa è la materia del romanzo. Ci sono due scrittori, Piccoli e Benacquisto, che da giovani non hanno mai letto libri, guardavano la TV, che in questo caso stranamente non ha fatto danni, e l'immagine ha creato due romanzieri. Sono prudente qundo si deve fare un confronto tra immagine e parole.

Int.: Come mai tutto questo giocare coi corpi? In Signor Malaussène c'è del … "cannibalismo eucaristico"?

D.P.: Riguardo al cannbalismo, non siamo più cannibali non perché siamo migliorati noi ma perché è migliorata la cucina. Il senso di minaccia che c'è sulla famiglia Malaussène c'è perché il tempo passa e si è portato via alcuni miei amici; per cui cerco di scherzare sui corpi, sui medici; la classe medica è l'ultimo luogo ancora antropofago, basta pensare al traffico d'organi, al sangue infetto, con un ministro in Francia che si è detto responsabile ma non colpevole. Nella prosivendola mi chiedevo come avrebbero reagito le cellule del corpo alla morte delle cellule cerebrali: questo cervello centrismo, franco-centrismo, euro-centrismo… (qui finiscono gli appunti; l'ultima frase raccolta, fuori contesto, è..:) …il telefonino è metafora del cordone ombelicale.