giovedì 28 novembre 2013

Osteria numero uno



L'osteria è, com'è noto, luogo di convivio alcoolico, improntato ad un'informalità noncurante di freni inibitori linguistici o comportamentali: le risa e i canti (ma anche le liti) cui ci si abbandona spinti da Bacco, infatti, sono improntati in genere ad uno scarso rispetto dei concetti di "limite" o "misura", sono per definizione sfrenati, come indicano le espressioni "linguaggio / battute / canzoni da osteria", con le quali si intende indicare che la loquela è piuttosto scurrile e l'argomento è di quelli che il pudore vuole di solito esclusi dalle pubbliche conversazioni (i.e. riferimenti sessuali e/o corporali).

Ma le "osterie" sono anche un tipo di composizione popolare nata in questo spirito, nella fattispecie strofette (anonime come composizione e diffuse oralmente come genuina tradizione popolare vuole) con una musica e una forma precise: non si possono definire come un genere letterario/canoro vero e proprio (si trovano infatti spesso raccolte sotto l'unico nome di "Canzone delle osterie"), ma hanno appunto una forma ben codificata, ancorché semplice e duttile (da qui il successo).

Probabilmente non sono neanche nate proprio nei locali da cui prendono il nome, sembra piuttosto un'operazione letteraria consapevole, ancorché popolare, che ambienta nelle osterie qualcosa scritto in quello spirito, con quel tipo di umorismo: un umorismo crasso e popolano, che denuncia la propria origine geografica romana non solo nel dialetto in cui sono composti i versi, ma anche nel modo in cui spesso si accanisce irriverentemente contro il clero.

Operazione letteraria o meno, però, ciò non toglie che alcune di queste composizioni sappiano cogliere situazioni social-esistenziali in pochissimi versi e con estrema precisione nonché grande capacità evocativa.

Qui vogliamo analizzarne una, proprio la numero uno (che non è la prima visto che esiste, e in molte varianti, anche la numero zero), procedendo dapprima ad un'analisi generale della forma di queste "Osterie", poi verso per verso.

Dicevamo della semplicità e della duttilità di questa forma poetica: il verso infatti è l'ottonario, ossia il più facile e cantabile (da "Qui comincia l'avventura / del signor Bonaventura" a Tom's Diner passando per Margherita, se ne trovano esempi a vagoni), e la musica su cui vengono cantate è quella dell'introduzione de I Watussi di Edoardo Vianello - ma qui non sappiamo se venga prima l'uovo o la gallina.
La strofa invece è composta da quattro versi: i primi due, sorta di "fronte", vedono un incipit sempre uguale eccetto che per il numero o il nome dell'osteria in cui si presume sia ambientata (o raccontata) la storia che seguirà (appunto "Osteria numero..."), cui segue un secondo verso, in rima col primo, nel quale si enuncia la situazione. Entrambi, a causa del tono sospeso richiesto dalla natura introduttiva dei due versi, sono seguiti da un contrappunto che consiste nell'onomatopea "para-ponzi ponzi pò", ripetuta dopo ognuno dei due e abbandonata nei successivi.
I quali, anch'essi in rima tra di loro, sono quelli in cui di solito esplode la comicità - vera o presunta - rivelando il paradosso o l'eccesso della situazione o volgendola verso esiti o linguaggio sconci (ma a volte si parte già dal secondo verso, vedi una delle varianti della numero mille o l'irripetibile "Osteria del Vaticano").
Il componimento poi, sull'onda delle risate suscitate (anch'esse vere o presunte), si chiude con una sirma, o coda, facile e sempre identica, ovvero "dammela a me biondina, dammela a me biondà".

Nel primo verso dell'osteria in questione, come detto, ci si limita a enunciare il nome o il numero dell'Osteria:

Osteria numero uno

(apparentemente di poco conto, in realtà l'incipit svolge la funzione di assegnare un numero/titolo al componimento stesso).
Nel secondo

a casa mia non c'è nessuno

si enuncia la situazione: in questo caso, a prima vista, banale, con un verso che sembra a basso tasso di informazione; c'è però un dettaglio che alla luce del seguito acquista rilevanza e su cui torneremo.
I versi finali li leggiamo insieme:

c'è mi' nonno in mutandoni
che se gratta li cojoni

cui segue la suddetta coda "dammela a me" ecc... e che è irrilevante ai fini dell'analisi.

Fine; ma con che rara potenza icastica questi due versi finali descrivono un mondo!
Il mondo di un povero signore anziano, escluso ormai dal ciclo produttivo, che gironzola in casa sopraffatto dalla noia di una vita talmente vuota che l'attività più rilevante della giornata consiste appunto nell'assolvere a una funzione tanto banalmente corporale e quasi automatica quanto proverbialmente simbolo appunto di tedio da inattività.
Due versi che già a una prima lettura squarciano un universo; ma guardando ai dettagli si colgono ancora più a fondo i termini drammatici della situazione.
"A casa mia", ad esempio: chi parla è per forza il nipote (chiama l'anziano "nonno"), e se il nonno è in mutandoni a casa vuol dire che abita lì, perché i nonni, quando vanno a trovare i figli/nipoti/parenti vari, di solito si vestono eleganti, secondo gli antichi dettami del costume dei dì di festa. Si tratta dunque, quasi sicuramente, di un vecchio vedovo - quindi ancora più solo, che non ha più neanche una casa propria (o la giurisdizione della sua, se sono i discendenti ad essere andati ad abitare con lui).
I "mutandoni", poi, costituiscono un dettaglio rivelatore di molteplici elementi: in primis, col loro essere capo d'abbigliamento di un'antichità quasi grottesca avviliscono ulteriormente l'immagine dell'uomo, rafforzando al contempo quella di anzianità fuori dal tempo che lo definisce.
Ma oltre ad essere anche indicativi della sua esclusione dal ciclo produttivo (è in mutandoni, oltre che in casa, perché non deve vestirsi per andare a lavorare), se ci si riflette bene possono suggerire un quadro di disagio urbano ancora più marcato.
Per stare a casa in mutandoni, infatti, anche a Roma c'è bisogno che sia estate (in Sicilia potrebbe bastare una primavera avanzata, ma a Roma ci vuole l'estate); e se è estate, la casa potrebbe essere vuota perché la famiglia è partita per le vacanze, lasciando a casa il povero vecchio che ormai è considerato un peso; abbandonandolo nella solitudine delle città agostane, costretto in casa mentre la famiglia si rinfresca al mare e lui, siccome la tv come ogni anno ha detto che gli anziani non devono uscire nelle ore calde, non può manco andare arbarétto (il vino fa male, soprattutto d'estate, e poi probabilmente il posto è chiuso per ferie) né a guardarsi due operai che scavano una buca per strada come da buona tradizione di pensionato (anche perché nelle ore calde magari manco lavorano).
Un drammatico squarcio di desolazione urbana, al cui centro c'è questo pover'uomo del quale, nel secondo verso, si dice "nessuno", a sottolineare ancora di più la bassissima considerazione in cui il capitalismo avanzato tiene coloro che non sono più in grado di nutrire l'economia moderna con la sua natura di vampiro delle energie umane.
In pochi versi, un trattato di sociologia che non rinuncia alla potenza di sintesi del linguaggio poetico.

Certo, è un quadro ormai invecchiato: tutto questo infatti era vero (o più diffuso) prima della crisi.
Oggi invece il valore economico del nonno nella famiglia si è accresciuto, e il nipote lo guarda come colui che lo salva grazie alla pensione (maturata in tempi in cui il lavoro veniva tartassato un po' meno che non nei tempi neomedievali odierni), pensione da cui escono quelle occasionali elargizioni che per il giovane precario costituiscono provvidenziale boccata d'aria a soccorso delle sue finanze ballerine.
Ciò non toglie che la scena, ancorché (ma non del tutto) passata d'attualità, sia stata delineata con rara precisione ed evocatività.

Lode dunque all'osteria: non solo quella in cui si annegano i propri dispiaceri, quanto la forma poetica capace di restituiirci immagini di vita contemporanea storicamente determinate, ma vivide e potenti.
Prosit! (o: dammela a me biondina, dammela a me... ecc...)

venerdì 1 novembre 2013

Ultrascienza -> magia

Se è vera la teoria delle stringhe, come sembra, e se l'ho capita bene, cosa più improbabile, in pratica tutto l'esistente sarebbe collegato, sarebbe in continuità.
Per cui, lungo questo continuum sarebbe possibile inviare impulsi dal proprio cervello alla realtà circostante, magari ordinandole di cambiare: certo bisognerebbe prima risolvere dettagli non secondari tipo il come mandarli e il linguaggio in cui mandarli in modo tale che i riceventi li accolgano; ma trovati quelli, sarebbero dunque possibili cose che per la vecchia fisica sono pura magia.

Io ogni tanto provo a condizionare la realtà circostante pensando intensamente a ciò che vorrei, ma gli esiti sono scarsissimi.

Ste stringhe me sa che so' slacciate.